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Giovanni Papini


"(...) l'un fratello l'altro abbandonava, ed il zio il nepote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito, e (che maggior cosa è e quasi non credibile) li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, il visitare e di servire schifavano"
                      G. Boccaccio
 




Stampa Artista fiorentino , prima metà del XVII secolo
 

 

Il fiume Bisenzio, sullo sfondo la città di Prato

 


 I fratelli della Misericordia in atto di muoversi dall'Oratorio per l'opera di carità

 

Stampa Artista fiorentino , prima metà del XVII secolo

 

   Il Webmaster
   La Redazione
 

"La Misericordia attraverso i secoli"
di G. Guarducci
 

 


 

E' il concetto per esprimere il nostro lavoro nell'ambito della realtà virtuale, sentendoci più che Volontari Fratelli delle Misericordie.

L'epidemia di peste
"1629 - 1632"

il contributo della Compagnia del Pellegrino

Particolarmente sensibile ed efficace fu il contributo dei confratelli del Pellegrino durante l'epidemia di peste del 1629 -1632. Nel novembre 1629, appena si ebbero in Toscana le prime avvisaglie del contagio, le autorità adottarono immediatamente misure preventive. fu vietato “l'entrare a' confìni a tutti gli ebrei, vagabondi, birboni e zingari ”; le strade di accesso alle città erano sorvegliate da “ guardie di soldati, mettendosi ogni mezzo miglio una trabacca, con cinque o sei di loro, uno dei quali faceva di continuo la sentinella e se veniva gente sparava un archibuso, al quale cenno accorrevano gli altri dei vicini posti, eranvi cavalli che giorno e notte scorrevano acciò niuno passasse”.
La peste fece la sua prima apparizione nel pratese alla Villa di Tavola: il commissario di sanità vi spedì il cerusico Antonio Gramigní. Presto il contagio si manifestò anche entro le mura cittadine: le prime famiglie ad essere colpite furono quelle di Piero Zerini e di Niccolò Bardazzi; le loro case furono chiuse “ con precetto agli abitanti, sotto pena della vita e confiscazione dei beni, di non uscire, né ammettere alcuno... ” . In poco più di un anno, le case che vennero “ sprangate ” furono oltre un centinaio. In Prato, i morti furono 1236 e la punta massima fu toccata nell'ottobre del 1630, con ben 368 casi letali e va notato che “benché la peste cominciasse nel mese di agosto del 1630... non fu presa nota dei morti che nel mese di ottobre... ”.
L'8 ottobre 1630 il popolo pratese, come già aveva fatto durante l'epidemia del 1527, si riunì intorno all'immagine della Madonna delle Carceri ed anche il Sacro Cingolo fu portato in processione” scriveva un cronista dell'epoca che “... a spegnere il contagio, fa di bisogno ricorrere alla Maestà di Dio, alla intercessione della Beatissima Vergine e de'Santi; di poi osservare con diligenza quanto appiè: Inzolfare e profumar le case o stanze ove sono stati morti o malati; Separare subito scoperto il male gl'infermi da' sani; Bruciar subito elevar via le robe c'hanno servito per uso al morto o malato... e proibire i commerci”. Funzioni propiziatorie furono fatte anche in onore di S. Antonino, come già si faceva a Firenze. Si proibì alla gente di uscir di casa e di ritirare danari dai Luoghi Pii. Nell'ottobre fu aperto un lazzaretto nella chiesa e nell'ospedale di S. Silvestro, mentre i meno gravi e in via di guarigione venivano raccolti alla “convalescenza” stabilita nel Casone e nelle altre case dell'ospedale. Sennonché “ essendosi per l'esperienza conosciuto quanto fosse dannoso alla Terra il mantenere il lazzaretto in Prato... ”, fu trasferito a S. Anna, in quell'edificio che già era stato convento degli Agostiniani della Congregazione di Lecceto. Vicino al lazzaretto di S. Anna c'era (e c'è ancora) il convento dei Cappuccini i quali ben volentieri si posero al servizio degli appestati dei lazzaretto.
Il Comune di Prato pagava quattro becchini per il trasporto degli appestati. Dopo la morte dei primi tre, il quarto lasciò l'incarico. Fu allora che i morti vennero lasciati a fior di terra e spesso i cani furono visti nutrirsi di cadaveri.
Il cronista ricordato ci conserva, in proposito, questa memoria: “Mancando agli ammalati e convalescenti molte cose necessarie si mosse la venerabil Compagnia del Pellegrino per esercitar la carità e domandar a' deputati della Sanità di Prato il governo del lazzeretto e comunità acciò i malati e i convalescenti riavessero vitto fuoco e medicamenti a bastanza. Gli fu concesso e ne pigliorono il governo a dì 17 di giugno 1631... ” .
1 fratelli del Pellegrino furon visti tante volte passare per le strade di Prato, preceduti dal Capoguardia, il quale con una mazza, allontanava quanti si avvicinavano al loro fardello di morte. Compiuta la carità, la “ brigata ” dava lo strame dei cataletto alle fiamme. A sera si vedevano ancora nel loro incessante, mesto peregrinare, mentre con le torce a vento rischiaravano quell'aria ancora più triste per il calar della notte. Per questo servizio reso alla comunità, il Comune assegnò alla Compagnia un contributo mensile di 22 lire toscane.
Molti dei morti a causa del contagio trovarono riposo nel piccolo Oratorio di Santa Maria Assunta, l'Oratorio della Compagnia. E i morti furono molti: la piccola chiesa non era più sufficiente a contenerne, e fu così che la Compagnia venne nella determinazione di costruire un cimitero.
Il Governatore rivolse domanda al Granduca Ferdinando Il perché concedesse un pezzo di terra da destinarsi a camposanto. La richiesta veniva accolta e il 22 giugno 1631 venne assegnata al Pellegrino una striscia di terreno fuori della Porta Fiorentina accanto alle mura della città ed al bastione detto “ il bastione rovinato ”. Tanta era la necessità di dare inizio alle sepolture, che non si provvide nemmeno a recintarlo, cosa che sarà fatta solo nel 1746. Fu subito eretta, invece, una cappella intitolata a S. Rocco'. Si dispose che in essa vi fossero celebrate due messe alla settimana e, quando la moria cessò, un solenne anniversario.
In quel cimitero trovarono riposo oltre 600 morti, fra i quali alcuni di quei poveri frati che, per tutto il periodo dei contagio, avevano espresso con generosità e dedizione il loro slancio caritativo.
A testimonianza della loro opera, la Compagnia del Pellegrino aveva iscritto i buoni Cappuccini nei ruoli della fratellanza attiva del Sodalizio.

 

 
 
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